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Titolo: Imperfetto
Fandom: RPF- Calcio
Personaggi: Juan Mata/Fernando Torres; la progenie Torres
Rating: PG-13
Avvertimenti: slash; one sided; UST (o più URT); future!fic (ma giusto di qualche anno, visto che i bimbi Torres mi servivano un po' più grandini)
Note: Il Juanando è e sempre sarà lo sfiga-pairing del mio corazon. Sorry, I'm not really sorry. Questa cosetta piccolissima era sulla mia moleskine da cinque mesi e boh, non mi sembrava carino maltrattarla così. Anche perché ieri abbiamo avuto del Juanando sul goal ZTorres e insomma, mi sembrava carino ringraziare.
Ps: l'utenza è pregata di non bashingarmi Juanito o morderò arti. #peaceandlove







“Facciamo che ero…” Nora inciampa nelle doppie per colpa dell’entusiasmo del gioco proposto ma il suo inglese è pulito, senza traccia di cadenze spagnole o titubanze linguistiche. Fernando si morde le labbra e le sorride distrattamente, forse intristito da quanto sia strano che sua figlia abbia sulle labbra un’inflessione così diversa da quella della sua infanzia.
La bambina sfugge al suo tentativo di sistemarle i capelli spettinati e si divincola saltellando su un piede solo, intenta a snocciolare indicazioni per quel suo gioco appena inventato, fatto di fantasie e sogni ad occhi aperti.
“Tennis?” ridacchia Juan quando Nora si allontana sgusciando via rapida e elettrizzata, tra le mani un’immaginaria racchetta a muovere l’aria e suo fratello Leo alle calcagna, che le urla di aspettarlo. Fernando alza le spalle e fa una smorfia come a scusarsi che i suoi figli preferiscano un altro sport al calcio, ma non ne sembra particolarmente offeso.
“Ti ricordi quando bastava un imperfetto per essere felici?” dice invece, e quando parla appare distante, quasi la sua voce provenisse da dietro un vetro immaginario, quasi fosse un sussurro che si infiltra in una crepa temporale, in un Universo Parallelo tanto diverso quanto simile a quello dove invece è intrappolato lui. Juan dubita che in quel momento rammenti di essere seduto affianco a lui, in quel parco poco affollato e ben mimetizzato con il resto della città; forse nemmeno si rende conto di trovarsi a Londra, malgrado la pioggerellina lenta e seccante – che cade diligentemente più o meno dal momento in cui hanno deciso di mettere piede fuori di casa – non si possa proprio confondere con la Spagna.
Un ginocchio ossuto, il ginocchio ossuto di Fernando, sbatte fintamente violento contro il suo, facendolo trasalire: adesso era lui ad essere distante, perso nei propri pensieri. “Ehi, mi ascolti, Matita?” gli chiede scherzoso e con troppa dolcezza nella voce.
Fernando ha tante lentiggini su quel volto dai lineamenti delicati: anche così, anche sul quel solo lato di viso che Juan riesce a vedere dalla sua posizione, seduto sulla scomoda panchina umidiccia del parco, le vede chiaramente, e sono tante. Vorrebbe allungare le dita e contarle una per una.
“Ti ricordi?” lo spagnolo di Fernando è un mormorio basso e pieno di sottintesi. Juan non è sicuro di poterlo affrontare con il giusto autocontrollo.
“Usavi l’imperfetto e il mondo diventava quello che volevi. Bastava un imperfetto e tu diventavi quello che volevi. Che fosse un astronauta o un dinosauro feroce o il campione di calcio di Spagna. Non importava quanto fosse impossibile o assurdo o…”
“… sbagliato” gli sfugge dalle labbra, e Fernando si volta a guardarlo arrossire e nascondere le labbra dentro il colletto della giacca a vento.
“O sbagliato”, concede, fissandolo negli occhi con una decisione inconsueta per lui.
“Daddy, daddy!” li interrompe Nora, che corre verso di loro con Leo sempre fedelmente al seguito, le calosce di entrambi totalmente inzaccherate e le guance rosse per la corsa.
“Uncle, uncle!” lo chiama Leo separandosi dalla sorella e dirigendosi verso Juan con un sorriso pieno e troppo simile a quello di suo padre, che lo contagia immediatamente. Gli affida un grande tesoro travestito da banale sassolino e ci tiene a metterlo al corrente dei nuovi piani di gioco: “Facciamo che ero un campionissimo di altalena!” dice, e Juan annuisce replicando il suo entusiasmo genuino, sorridendo per l’accento di Leo che è così improbabilmente londinese.
“No, facciamo che ero io la campionessa olimpionide di altalena!” si intromette Nora, che si lascia riabbottonare l’impermeabile dalle mani pazienti di Fernando, lottando un po’ contro l’imposizione del cappuccio. Poi corrono via entrambi, come saette, a cercare quante più pozzanghere possibili, per saltarci dentro e inorridire agli schizzi di fango.
“Facciamo che…” “No, facciamo che…” e le risate dei bambini stridono così tanto con lo sguardo assente di Fernando, con i suoi occhi che sembrano improvvisamente lucidi.
“Te lo ricordi, Juan?” ed è così vicino che ne avverte il calore del corpo, e quelle lentiggini sembrano essersi moltiplicate dall’ultima volta che si è soffermato ad ammirarle, e vorrebbe contarle, solo per sapere se è vero.
“Facciamo che…” mormora nell’inglese traballante che ancora non riesce ad imparare correttamente, con quel suo inglese dal quale probabilmente non accetterà mai di togliere il proprio forte accento spagnolo.
Facciamo che.
Facciamo che io ero autorizzato ad allungare le dita che mi fremono qua nelle tasche, chiuse nella morsa feroce del mio pugno e che ho paura crollino e mi tradiscano, un giorno, di colpo, senza poterle fermare.
Facciamo che io contavo le tue lentiggini, una per una, che sono troppe e perfette, sul tuo viso che è sempre lontano ma mai davvero.
Facciamo che potevo.

"Bastava un imperfetto".
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