[RPF - Calcio] Decirnos Adiós
Apr. 5th, 2013 11:43 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
Titolo: Decirnos Adiós
Fandom: RPF- Calcio
Personaggi: Bojan Krkic(/Pep Guardiola)
Rating: PG-15
Avvertimenti: slash (dai, really?!); Bojan che fa la femminuccia ed è più DramaQueen di quanto vorrei. Ma è un cucciolotto, quindi gli si perdona tutto *fa grattini*
Note: 1) Siamo tipo a luglio 2011 e Bojan è appena stato venduto alla Roma. Bonjour tristesse. No, insomma, è un altro pezzettino dell'headcanon Pejan che probabilmente un giorno vedrete illustrato meglio su questi schermi (quando dove e soprattutto perché non solo domande da farsi ù.ù) E lo so, Bojan ha questo tono un po' da telenovela argentina, ma ha passato dodici anni in quel del Barcellona e di Barcellona, e per esperienza, lasciare il posto dove passi tutta quella gran fetta di tua vita che è l'adolescenza no, non è mai una passeggiata.
2) Soundtrack del tutto è questa cosa qui, Decirnos Adiós: testo di Eduardo Cruz, voce di Penelope Cruz e Miguel Bosé (mettetevi il cuore in pace, per me Spagna/Spagnoli/Spagnoleggiamenti=MiguelBosé. After all this time).
3) I posti citati esistono davvero e sono davvero così belli come nei ricordi di Bojan.
C’è ancora il sole, dietro i vetri dei finestrini dell’autobus; Bojan ne avverte il calore dei suoi raggi scaldargli le gote.
Tira su col naso, ancora, per l’ennesima volta nell’ennesimo minuto speso a piangere silenziosamente, e si asciuga accuratamente le lacrime con la manica della felpa, fingendo di non notare le occhiate perplesse degli altri passeggeri.
Rafforza la stretta sullo zaino che tiene saldamente ancorato sulle proprie cosce e sistema meglio la valigia al suo fianco – quella valigia che sembra essere alta il doppio di lui e che sicuramente lo supera nel peso – per evitare che questa scivoli a causa degli scossoni della strada mal asfaltata.
Deve sembrare un ragazzino che prova a scappare di casa: con quei bagagli riempiti fino a scoppiare e le lacrime secche sulle gote, gli occhi piccoli piccoli resi gonfi dal pianto, i capelli arruffati e la faccia colpevole. Deve sembrare proprio un ragazzino che tenta di scappare di casa e forse, in fin dei conti, lo è.
Sospira e appoggia stancamente la testa contro finestrino sporco di pioggia sabbiosa, che riflette opaco una Barcellona in dissolvenza, i suoi contorni che fuggono via veloci, seguendo il ritmo deciso della guida dell’autista. Ringrazia lo scarso traffico che gli impedisce di soffermare lo sguardo su quegli angoli conosciuti della città che si sta lasciando indietro, o il suo pianto si triplicherebbe e forse scenderebbe giù dall’autobus alla prima fermata disponibile e correrebbe a casa insultandosi per aver pensato di poterla lasciare.
Ci sono strade che ha solcato, attraversato e vissuto così tante volte da poterle ricreare nella mente senza alcuna fatica, con fedeltà assoluta, senza tralasciarne alcun dettaglio. Ripensa al miscuglio di colori, odori e accenti del Mercat de LaBoqueria, con le sue bancarelle piene di dolci e le pesche più succose che abbia mai assaggiato; ricorda con precisione maniacae le forme strane della Pedrera e di Casa Batlló, e i disegni dei mosaici del Parc Güell, e poi la Rambla e tutte le passeggiate fatte, tutte le risate e le cazzate dette e fatte con i suo amici che quel viale ha ospitato come un complice affettuoso e divertito; e i bagni a mezzanotte, il mare calmo che lo proteggeva, sempre caldo e amichevole, e le serate buttate via, a guardare la luna e le stelle seduto sulla panchina più instabile di tutto il Parc de la Ciutadella, e i panini mangiati in fretta davanti alla Font mágica de Montjüic, nella Plaça d’Espanya, per bearsi dei suoi giochi di luci colorate e acqua e poi correre al cinema o a casa di qualcuno a guardare una partita.
E poi giocarla, quella partita, ed ecco Camp Nou pieno di folla, Camp Nou vuoto e vibrante d’attesa, la gola secca e l’impazienza e la paura. Camp Nou che è la cosa più difficile da lasciarsi alle spalle, perché “Més que un club” è un motto che il Barcelona si è scelto bene, alla perfezione, e ora, forse soltanto ora, Bojan lo capisce fino in fondo.
Una sera più difficile delle altre – una delle più difficili tra le difficili ultime altre sere piene di nervosismo e confusione e quella sensazione spiacevole di trovarsi nel posto sbagliato, con le persone sbagliate, nel ciclone sbagliato degli eventi sbagliati – ha provato a buttare qualsiasi cosa avesse i colori blu-granata. Ha radunato un mucchietto di maglie, di pantaloncini e calzettoni, e le felpe, e i cappellini e tutti quegli stupidi innumerevoli portachiavi sparsi un po’ ovunque, con l’intenzione di scaraventarli dalla finestra o appiccare un gran falò nel bel mezzo della sala o pestarci sopra i piedi fino a far disintegrare tutta quella roba, nell'illusione di poter non provare più tutta quella dolorosa amarezza al solo vederla.
Ma poi ha abbassato lo sguardo sulla tuta che stava indossando, e tutti gli anni passati con quei colori addosso gli si sono rivoltati contro, tacciandolo di ingratitudine.
È stato in quel momento, che Bojan ha capito quanto fosse necessario per lui andarsene: quando ha sentito dentro di sé la rabbia evolversi in odio, un’emozione così estranea per lui, un’emozione che non sa gestire, e che non vuole imparare a fare.
“Puoi tornare in qualsiasi momento” gli ha detto Pep come congedo, spezzando quell’insensato gioco del silenzio a cui l’aveva condannato senza nemmeno sprecarsi a fornirgli una ragione – una ragione che Bojan aveva dovuto leggere negli occhi dei suoi compagni di squadra, dei ragazzi dello staff, degli alti dirigenti della società, che sapevano o forse solo sospettavano o forse invece non avevano capito niente nemmeno loro e Bojan vi aveva letto solo quello che Pep voleva vi leggesse – per tutti quei mesi. “Puoi tornare” e lo sguardo gentile, pieno di una comprensione che Bojan non voleva. Non voleva doversene andare, non voleva da Pep quell’accondiscendenza irreale, voleva una reazione sentita, urlata. Voleva che fossero pieni di sofferenza anche i suoi di occhi, li voleva feriti dalla rabbia. Voleva sentire sulle braccia la stretta ferrea di Pep, voleva che strappasse tutti quegli stupidi fogli che lo mandavano via, lontano da quella che era stata la sua casa per dodici lunghissimi e bellissimi anni, voleva un gesto, un insulto, una parola, un contatto, un "no" ripetuto all'infinito.
Voleva fare l’amore con lui, baciarlo con passione fino a sentire le labbra indolenzirsi, voleva sentire il proprio nome pronunciato col suo tono più dolce, tra gemiti e promesse, voleva ritrovarsi il colletto della maglia inzuppato non più solo dalle proprie lacrime. Voleva essere fermato.
Ma Pep non sarebbe mai riuscito a dargli niente di tutto quello: solo uno sguardo pieno di rimpianti e senso di colpa, solo tanti ricordi talmente ricchi di una vecchia, conosciuta felicità da renderla una lama sottile abilmente conficcata nel petto, impietosa.
Così non gli è rimasto che piegare il capo e lasciare che sia un addio. Non un arrivederci, una breve pausa, un esperimento; nessun “puoi tornare” lo convincerà a farlo, condannarsi a vivere per due volte uno stesso lancinante dolore.
Probabilmente, nonostante abbia pronunciato quella frase con il tono di uno che ci crede davvero, anche Pep sa che quello di Bojan è un addio; e, del resto, è quello che hanno sempre fatto, dirsi addio. Quello che Pep ha cominciato a fare mesi prima, con i suoi silenzi. Ne ha proprio il suono, il rimbombo secco di una porta chiusa a chiave a doppia mandata, la chiave gettata in qualche angolo e dimenticata. Bojan non crede di poter essere così bravo a dimenticare anche cosa celi, scordare per sempre come fosse quell’appartamento ora abbandonato, come fosse quella sua vita tinta di blu-granato.
C’è ancora il sole, dietro i vetri dei finestrini dell’autobus; Bojan se ne gode il calore, socchiudendo gli occhi quando l’autobus si ferma rumorosamente.
« Ehi, ragazzo » dice qualcuno, e Bojan alza lo sguardo verso quella voce maschile che lo scuote. È stordito dai propri pensieri e ci mette un po' per mettere a fuoco la figura dell'autista « Questo è il capolinea ». Sorride di un sorriso triste, quando si accorge che sì, lo è davvero.
Fandom: RPF- Calcio
Personaggi: Bojan Krkic(/Pep Guardiola)
Rating: PG-15
Avvertimenti: slash (dai, really?!); Bojan che fa la femminuccia ed è più DramaQueen di quanto vorrei. Ma è un cucciolotto, quindi gli si perdona tutto *fa grattini*
Note: 1) Siamo tipo a luglio 2011 e Bojan è appena stato venduto alla Roma. Bonjour tristesse. No, insomma, è un altro pezzettino dell'headcanon Pejan che probabilmente un giorno vedrete illustrato meglio su questi schermi (quando dove e soprattutto perché non solo domande da farsi ù.ù) E lo so, Bojan ha questo tono un po' da telenovela argentina, ma ha passato dodici anni in quel del Barcellona e di Barcellona, e per esperienza, lasciare il posto dove passi tutta quella gran fetta di tua vita che è l'adolescenza no, non è mai una passeggiata.
2) Soundtrack del tutto è questa cosa qui, Decirnos Adiós: testo di Eduardo Cruz, voce di Penelope Cruz e Miguel Bosé (mettetevi il cuore in pace, per me Spagna/Spagnoli/Spagnoleggiamenti=MiguelBosé. After all this time).
3) I posti citati esistono davvero e sono davvero così belli come nei ricordi di Bojan.
“Pero cómo duele dejar de verte; respirar, vivir contigo en mente, con tu risa, tu verano y m mala suerte.
Aceptarè mi vida en esta mala muerte.
Decirnos Adiós.”
Però come fa male smettere di vederti; respirare, vivere con te nella mente, con le tue risate, la tua estate e la mia sfortuna.
Accetterò la mia vita in questa cattiva morte.
Dirci addio.
(Eduardo Cruz)
Aceptarè mi vida en esta mala muerte.
Decirnos Adiós.”
Però come fa male smettere di vederti; respirare, vivere con te nella mente, con le tue risate, la tua estate e la mia sfortuna.
Accetterò la mia vita in questa cattiva morte.
Dirci addio.
(Eduardo Cruz)
C’è ancora il sole, dietro i vetri dei finestrini dell’autobus; Bojan ne avverte il calore dei suoi raggi scaldargli le gote.
Tira su col naso, ancora, per l’ennesima volta nell’ennesimo minuto speso a piangere silenziosamente, e si asciuga accuratamente le lacrime con la manica della felpa, fingendo di non notare le occhiate perplesse degli altri passeggeri.
Rafforza la stretta sullo zaino che tiene saldamente ancorato sulle proprie cosce e sistema meglio la valigia al suo fianco – quella valigia che sembra essere alta il doppio di lui e che sicuramente lo supera nel peso – per evitare che questa scivoli a causa degli scossoni della strada mal asfaltata.
Deve sembrare un ragazzino che prova a scappare di casa: con quei bagagli riempiti fino a scoppiare e le lacrime secche sulle gote, gli occhi piccoli piccoli resi gonfi dal pianto, i capelli arruffati e la faccia colpevole. Deve sembrare proprio un ragazzino che tenta di scappare di casa e forse, in fin dei conti, lo è.
Sospira e appoggia stancamente la testa contro finestrino sporco di pioggia sabbiosa, che riflette opaco una Barcellona in dissolvenza, i suoi contorni che fuggono via veloci, seguendo il ritmo deciso della guida dell’autista. Ringrazia lo scarso traffico che gli impedisce di soffermare lo sguardo su quegli angoli conosciuti della città che si sta lasciando indietro, o il suo pianto si triplicherebbe e forse scenderebbe giù dall’autobus alla prima fermata disponibile e correrebbe a casa insultandosi per aver pensato di poterla lasciare.
Ci sono strade che ha solcato, attraversato e vissuto così tante volte da poterle ricreare nella mente senza alcuna fatica, con fedeltà assoluta, senza tralasciarne alcun dettaglio. Ripensa al miscuglio di colori, odori e accenti del Mercat de LaBoqueria, con le sue bancarelle piene di dolci e le pesche più succose che abbia mai assaggiato; ricorda con precisione maniacae le forme strane della Pedrera e di Casa Batlló, e i disegni dei mosaici del Parc Güell, e poi la Rambla e tutte le passeggiate fatte, tutte le risate e le cazzate dette e fatte con i suo amici che quel viale ha ospitato come un complice affettuoso e divertito; e i bagni a mezzanotte, il mare calmo che lo proteggeva, sempre caldo e amichevole, e le serate buttate via, a guardare la luna e le stelle seduto sulla panchina più instabile di tutto il Parc de la Ciutadella, e i panini mangiati in fretta davanti alla Font mágica de Montjüic, nella Plaça d’Espanya, per bearsi dei suoi giochi di luci colorate e acqua e poi correre al cinema o a casa di qualcuno a guardare una partita.
E poi giocarla, quella partita, ed ecco Camp Nou pieno di folla, Camp Nou vuoto e vibrante d’attesa, la gola secca e l’impazienza e la paura. Camp Nou che è la cosa più difficile da lasciarsi alle spalle, perché “Més que un club” è un motto che il Barcelona si è scelto bene, alla perfezione, e ora, forse soltanto ora, Bojan lo capisce fino in fondo.
Una sera più difficile delle altre – una delle più difficili tra le difficili ultime altre sere piene di nervosismo e confusione e quella sensazione spiacevole di trovarsi nel posto sbagliato, con le persone sbagliate, nel ciclone sbagliato degli eventi sbagliati – ha provato a buttare qualsiasi cosa avesse i colori blu-granata. Ha radunato un mucchietto di maglie, di pantaloncini e calzettoni, e le felpe, e i cappellini e tutti quegli stupidi innumerevoli portachiavi sparsi un po’ ovunque, con l’intenzione di scaraventarli dalla finestra o appiccare un gran falò nel bel mezzo della sala o pestarci sopra i piedi fino a far disintegrare tutta quella roba, nell'illusione di poter non provare più tutta quella dolorosa amarezza al solo vederla.
Ma poi ha abbassato lo sguardo sulla tuta che stava indossando, e tutti gli anni passati con quei colori addosso gli si sono rivoltati contro, tacciandolo di ingratitudine.
È stato in quel momento, che Bojan ha capito quanto fosse necessario per lui andarsene: quando ha sentito dentro di sé la rabbia evolversi in odio, un’emozione così estranea per lui, un’emozione che non sa gestire, e che non vuole imparare a fare.
“Puoi tornare in qualsiasi momento” gli ha detto Pep come congedo, spezzando quell’insensato gioco del silenzio a cui l’aveva condannato senza nemmeno sprecarsi a fornirgli una ragione – una ragione che Bojan aveva dovuto leggere negli occhi dei suoi compagni di squadra, dei ragazzi dello staff, degli alti dirigenti della società, che sapevano o forse solo sospettavano o forse invece non avevano capito niente nemmeno loro e Bojan vi aveva letto solo quello che Pep voleva vi leggesse – per tutti quei mesi. “Puoi tornare” e lo sguardo gentile, pieno di una comprensione che Bojan non voleva. Non voleva doversene andare, non voleva da Pep quell’accondiscendenza irreale, voleva una reazione sentita, urlata. Voleva che fossero pieni di sofferenza anche i suoi di occhi, li voleva feriti dalla rabbia. Voleva sentire sulle braccia la stretta ferrea di Pep, voleva che strappasse tutti quegli stupidi fogli che lo mandavano via, lontano da quella che era stata la sua casa per dodici lunghissimi e bellissimi anni, voleva un gesto, un insulto, una parola, un contatto, un "no" ripetuto all'infinito.
Voleva fare l’amore con lui, baciarlo con passione fino a sentire le labbra indolenzirsi, voleva sentire il proprio nome pronunciato col suo tono più dolce, tra gemiti e promesse, voleva ritrovarsi il colletto della maglia inzuppato non più solo dalle proprie lacrime. Voleva essere fermato.
Ma Pep non sarebbe mai riuscito a dargli niente di tutto quello: solo uno sguardo pieno di rimpianti e senso di colpa, solo tanti ricordi talmente ricchi di una vecchia, conosciuta felicità da renderla una lama sottile abilmente conficcata nel petto, impietosa.
Così non gli è rimasto che piegare il capo e lasciare che sia un addio. Non un arrivederci, una breve pausa, un esperimento; nessun “puoi tornare” lo convincerà a farlo, condannarsi a vivere per due volte uno stesso lancinante dolore.
Probabilmente, nonostante abbia pronunciato quella frase con il tono di uno che ci crede davvero, anche Pep sa che quello di Bojan è un addio; e, del resto, è quello che hanno sempre fatto, dirsi addio. Quello che Pep ha cominciato a fare mesi prima, con i suoi silenzi. Ne ha proprio il suono, il rimbombo secco di una porta chiusa a chiave a doppia mandata, la chiave gettata in qualche angolo e dimenticata. Bojan non crede di poter essere così bravo a dimenticare anche cosa celi, scordare per sempre come fosse quell’appartamento ora abbandonato, come fosse quella sua vita tinta di blu-granato.
C’è ancora il sole, dietro i vetri dei finestrini dell’autobus; Bojan se ne gode il calore, socchiudendo gli occhi quando l’autobus si ferma rumorosamente.
« Ehi, ragazzo » dice qualcuno, e Bojan alza lo sguardo verso quella voce maschile che lo scuote. È stordito dai propri pensieri e ci mette un po' per mettere a fuoco la figura dell'autista « Questo è il capolinea ». Sorride di un sorriso triste, quando si accorge che sì, lo è davvero.