joeypottertaylorkinney: (Default)
[personal profile] joeypottertaylorkinney
Titolo: Saudade (2/2) – Tempi supplementari
Fandom: RPF - Calcio
Personaggi: Zlatan Ibrahimovic; José Mourinho; (sullo sfondo: Mario Balotelli; Davide Santon)
Pairing: Jobra; (sullo sfondo: Santonelli)
Genere: Malinconiavieniame! Ah, non è un genere? E nemmeno una delle guerriere Sailor?
Rating: PG-15
Avvertimenti: slash - bipolarità (dei personaggi) (della one-shot) (dell’autrice)
Note: 1) Questa cosa si lega a quest'altra cosa, Saudade (1/2) – Al quarantaquattresimo; primo tempo di una Gara di Malinconie. In verità si lega e non si lega, è l'altro lato delle cose, è l'altra storia, ma integra in qualche modo (sottile, forse nemmeno comprensibile alla prima lettura) quello che si raccontava con Mario.
Voglio davvero tanto bene a questa strana cosa (una raccolta non raccolta, una seconda parte slegata ma legata alla prima), ammetto di trovarla buona, o perlomeno decente, e vi assicuro che non mi capitava da mesi di scrivere qualcosa che mi piacesse sul serio o che fosse sul serio. È stata responsabile del mio blocco scrittorio di quasi due mesi, ma è stata anche responsabile del mio sblocco (non so quanto totale). Quindi trattatemela bene, anche perché tra i pensieri di Zlatan ci sono anche piccoli grossi pezzetti di me.Leggetela con calma, abbiate pazienza con lei, rompe le regole temporali ma sono solo wibbly wobbly timey wimey stuff pensieri confusi che cercano di chiarirsi alla fine.
Ps: aiuto per i lettori: Se Mario e Davide erano virgole, Zlatan e José sono punti. Probabilmente si vede anche stilisticamente.
2) Citazioni più o meno letterarie e più o meno esplicate di: Francesco Bianconi e i suoi testi per i Baustelle (in particolare da “Il Futuro”)-Tabucchi-Do comeco ao fim-Pessoa-Dino Campana-Saudade (1/2) – Al quarantaquattresimo; primo tempo di una Gara di Malinconie
3) Dedicata, come la prima parte, all’Eve del mio Evey (doveva essere un regalo di compleanno/Natale ma ahahahah).
Ma un pezzetto di questa cosa è decisamente per lo Sherlin del mio Moriarthur, perché Tabucchi&Portogallo&DCAF, eh.
Infine la dedica più importante: ringrazio di cuore Nana, che mi supporta e mi sopporta quando ho momenti di Zlatanite acuta e quel – lo so – fastidioso impellente bisogno di parlare e fangirlare con qualcuno di quel robo assurdo che è Zlà. Io ho problemi a scrivere Jobra: mi si incastra nel cervello e non mi lascia più, però non fa la grazia di districarsi e si lascia studiare e capire quando e se vuole. Quindi potete capire quanto santa sia da fare Nana. Le ho rotto le pallissime con questa storia, e lei è stata bella e paziente e mi ha incoraggiata e picchiata virtualmente e mi ha inviato tanto amore e io non me la merito *sbacia la moon of her life*
4) Parlando di questa creatura, l’ho più volte definita come La Jobra, oltre che come Il Mostro o "Il figlio legittimo di Satana" o Il Mio Parto Plurigemellare. Insomma, la amo-odio e credo proprio sia quella definitiva.
In queste quasi 6000 parole (OMG! Io non ho mai scritto così tanto!) di deliri non c’è tutto su di loro, perché cacchio, manca sempre qualcosa, ma una buona parte della mia visione sì.
Non se ne scriverò ancora, quindi e, se ne farò, potrò ripetermi un sacco. Nel caso sopprim… sopportatemi.



"C'è una saudade risentita. Quella che desidererebbe trattenere, fissare, possedere.
C'è una saudade saggia, che lascia le cose passare, come se non passassero. Liberandole dal tempo, salvando la loro essenza di eternità.
È l'unica maniera, del resto, di dare loro permanenza: renderle immortali nell'amore.
Il vero amore è, paradossalmente, una saudade costante, senza nessun egoismo."

(Cecilia Meireles)






Zlatan sbuffa infastidito oltre il rumore dell'acqua che scorre. « Questa canzone è orrenda » afferma guardandolo direttamente dentro lo specchio.
José allunga la mano per cambiare traccia sul suo i-pod incastrato nel lettore senza distogliere l'attenzione dal rasoio che scorre lento sulla sua mascella.
La stanza, già avvolta dal vapore e da una bassa musica quieta, si riempie adesso di una melodia più forte ma ugualmente placida e ripetitiva, una morbida ballata portoghese; Zlatan chiude le manopole della doccia facendo più rumore possibile.
« Non sta migliorando » dice, e schiocca la lingua contro il palato per enfatizzare il concetto.
José lo guarda furbescamente da dentro lo specchio e cambia ancora traccia, mentre passa a radersi l'altro lato del viso con la stessa pacata attenzione di prima.
Per un attimo Zlatan fa silenzio: afferra l'asciugamano con un movimento minuscolo, giusto per concedergli una possibilità. La risata divertita di José gli arriva alle orecchie prima ancora che la solita canzone melensa irrompa nel bagno.
« Javla helvete » sputa la parolaccia in svedese ma poi si ferma, si allaccia l’asciugamano attorno ai fianchi, guarda José dentro lo specchio e « che problema avete voi portoghesi? » domanda retorico, usando il suo italiano incerto.
« Noi? » chiede José ridendo più forte, accogliendo con un veloce sorriso più dolce l’uso di Zlatan di quella lingua, « un sacco di meravigliosi problemi » dice indicando teatralmente se stesso con entrambe le braccia, spalancandole poi per farsi ammirare meglio.
Zlatan non riesce ad impedirsi di scorrere lo sguardo sul suo corpo nudo e disarmonico; si morde le labbra ma non si fa distrarre, però, e si fa attento, che quel coglione è talmente coglione che sta facendo il coglione di proposito e va a finire che proprio mentre ride ecco che dice qualcosa di serio, qualcosa che Zlatan non vuole perdersi.
« Gente che si è buttata nell'oceano. Abbiamo dato al mondo pazzi dignitosi e urbani, schiavisti e poeti malati di lontananza » risponde infatti, e sembra che stia citando a memoria un libro letto tempo fa. Zlatan odia non conoscere i libri che legge o gli autori che nomina, odia sentirsi tagliato fuori, sentirsi inferiore; ma ci ragiona su mentre tampona i capelli con l'asciugamano, e conclude che in fin dei conti sia bello anche così, con José che parla citando cose che lui non conosce come se potesse però capirle lo stesso, e lui nemmeno gliele spiega, perché sa che Zlatan le cose deve capirle da solo.
« E musica di merda » mormora quindi volutamente serio, e si è avvicinato troppo a quel suo corpo che prima si era accontentato di osservare da lontano, l’ha fatto senza nemmeno rendersene conto, seguendo semplicemente il bisogno spasmodico che aveva di toccarlo.
Struscia il naso contro la guancia di José ricoperta di schiuma da barba, a ritmo con la musica.
« Ma sta zitto » ride José, e Zlatan, stupendo tutti, anche se stesso – ma forse non José –, obbedisce senza replicare.


* * *



« Tu sei come me » afferma dopo aver atteso in silenzio che José parlasse per primo. Ha le braccia incrociate e un’espressione talmente seria e minacciosa da risultare ridicola.
José nemmeno si spreca ad alzare lo sguardo da quei documenti che finge ostinatamente di leggere. Lo odia quando fa così: lo costringe a realizzare di desiderare il suo sguardo, la sua attenzione; non è così che dovrebbe funzionare, lui è Zlatan Ibrahimovic, lui non prega nessuno, lui non prega per avere niente.
« Cosa, una fastidiosa piaga umana, Zlatan? » commenta scribacchiando note e depositando firme chiaramente a caso « Io ho un naso decisamente più umano ».
« José » lo richiama con nella voce una forte nota di rimprovero, quasi stia sgridando un bambino.
« Zlatan » ribatte lui, come se fosse una gara, la loro, una partita – e forse lo è. Zlatan si morde la lingua fino ad avvertire il sapore del sangue sciogliersi in bocca e lo ignora, e conta fino a dieci o almeno ci prova, perché sa bene che altrimenti non usciranno da quella stanza integri (o loro o i loro vestiti).
« Sai che non resterai » gli ricorda, con la confidenza che tra loro non dovrebbe esistere, che Zlatan non dovrebbe mostrare di avere, almeno non lì, non in Pinetina, non davanti agli occhi indiscreti di tutti, che hanno già capito comunque e stanno zitti solo per rispetto o – più plausibilmente – per paura.
« Appiano mi piace » butta lì José, senza dar segno di essere infastidito, con una leggerezza irreale e per questo irritante « è Gentile » aggiunge poi, e ride di gusto per la sua stessa battuta.
Zlatan alza gli occhi al cielo e mormora improperi in svedese, guadagnandosi altri sghignazzi da parte di José.
« Non ho detto che non ti piace » comincia, ma deve fermarsi, mordersi di nuovo la lingua e contare piano, che l’ha capita la tattica scelta da José, il tentativo di chiudere quella conversazione prima che diventi davvero scomoda. È proprio questa consapevolezza a fornirgli la motivazione adatta a portare pazienza e non uscire dal suo ufficio seduta stante.
« Non ho detto che non ti piace » riprende, « ho detto che non resterai. Non è nella tua natura ».
José non fa una piega: gli rivolge un breve sguardo distratto e con un gesto frettoloso delle mani gli intima di andare avanti, come se si stessero scambiano impressioni sul tempo atmosferico.
Zlatan reprime a stento l’impulso di lanciargli qualcosa in pieno viso e farlo smettere.
« Quindi » respira, si morde la lingua, conta – o almeno ci prova – « quindi. Non capisco perché tu sia arrabbiato con me » conclude.
Rimangono immobili, intenti a studiarsi l’un l’altro, in un silenzio che si fa pesante e carico di parole non dette, di parole che nessuno dei due vorrebbe pronunciare, perché sono parole precise, che cancellerebbero quell’aura di non-detto, di sottinteso, quell’aria un po’ metafisica che è il bello ma anche il brutto del loro rapporto, che lo rende importante ma anche faticoso.
È ancora la caparbietà di Zlatan a sbloccare la situazione; raccoglie il coraggio e nasconde l’imbarazzo dietro una corazza di sarcasmo e acidità e « Cos’è, credi che la distanza possa influire sulla nostra relazione? » domanda cercando di non mostrarsi veramente interessato al parere di José su quella questione.
José si blocca non appena Zlatan finisce di pronunciare quella frase. Sembra quasi arrossisca, ma dev’essere solo un gioco di luci, un ingannevole gioco del sole, sì, José Mourinho non arrossisce, però lo guarda – finalmente – vagamente sbigottito e smarrito, e Zlatan avverte qualcosa cominciare a bruciargli il petto e non è la soddisfazione di averlo colpito, affatto, ed è un guaio. Dura solo un attimo, comunque: si riprende in fretta, torna in sé e gli indirizza un’occhiata dura, severa, che spezza in fretta per tornare a dedicarsi alle carte abbandonate sulla scrivania, che smuove rumorosamente, senza un vero scopo.
« Non sono sicuro di aver compreso pienamente l’ultima parola che ha pronunciato, Zlatan » pronuncia il suo nome come un insulto.
« Non sono sicuro di conoscere un sinonimo adatto a fartela capire, José » soffia piano, dosando il tono in base alla contrazione dei muscoli del collo del’uomo, tesi e poi rilassati in un ritmo disarmonico. « Non uno che non offenda il tuo candore, almeno » aggiunge con un ghigno e si sposta verso destra, a schivare per un pelo la penna stilografica che José gli ha lanciato contro. La raccoglie senza pensarci troppo, solo per avere qualcosa da fare e muoversi.
Il rimestio di fogli si arresta e José gli punta addosso uno sguardo ancora più duro e severo del precedente. Zlatan si pente all'istante di aver desiderato di averlo su di sé.
« Zlatan » sillaba il suo nome con rigidità, perdendo del tutto la morbidezza della cadenza portoghese.
« José » ribatte lui, per il solo gusto di farlo.
« Non essere ridicolo » lo avverte, senza staccare gli occhi dai suoi, e lo invita a leggere tra le righe. Poi cambia di nuovo tono ed espressione, abbassa lo sguardo e risponde alla domanda che Zlatan quasi si è dimenticato di aver pronunciato qualche minuto prima.
« Ho firmato. Non sono arrabbiato ».
« E tu non insultare… beh, se non il mio almeno il tuo cervello » lo punzecchia Zlatan, chiudendo quella conversazione secondaria che a stento ha riconosciuto che stavano avendo.
José si rilassa contro lo schienale della sua sedia imbottita esattamente nello stesso momento in cui Zlatan si irrigidisce contro la parete. « Non significa che tu non sia arrabbiato ».
« Ho firmato. Non sono arrabbiato » insiste José riprendendo a non guardarlo e a scrivere appunti segreti sul suo taccuino. « E, dal momento che mi rimproveri di insultare la tua e la mia intelligenza… perché tu staresti chiedendomi il permesso di fare una cosa che comunque farai lo stesso? »
« Io non ti chiedo nessuno stracazzo di strafottuto permesso, José. Non ho bisogno del tuo permesso. Non ho bisogno di niente da te » dice, anzi, ringhia, perché José l’ha colpito dove sa che può ferirlo.
« Bene. Quindi perché sei qua? » domanda José tornando subito a dedicarsi alle sue carte, con una faccia che mostra tutta la sufficienza che prova nei confronti di Zlatan e di quella sua reazione aggressiva.
« Io… » tenta di replicare furiosamente Zlatan, ma José è così distante in quel momento, così alto e grande e inarrivabile e forse persino sacro, che semplicemente la rabbia gli si smorza in gola di colpo e rimane fermo a giocherellare con la zip della sua tuta, come un bambino rimproverato per una marachella che nemmeno si rende conto di aver commesso.
« Perché tu capisci » risponde piano, così piano che infatti José non lo sente e Zlatan deve schiarirsi la voce e ripeterlo più forte, tremando su tutte le consonanti.
« Oh, ovviamente. La libertà, il desiderio, i piedi che non stanno fermi, la curiosità, la fame del nuovo, lo zaino sempre pronto sulle spalle, la smania di superarsi… ah no, scusa » finge di sbagliarsi per deriderlo, Zlatan lo capisce che lo sta deridendo « la necessità di riscattarsi ».
Sta quasi per pronunciargli quel ‘vaffanculo’ che gli preme sulle labbra, quando José alza di nuovo lo sguardo su di lui e questa volta non c’è alcuna traccia di durezza.
« Certo che capisco » e Zlatan per un attimo rimane spiazzato, perché per un attimo quasi ci crede.
« Non sono arrabbiato, davvero. O almeno, non è con te che lo sono ».
José tende la mano e indica la penna che l’altro ha ancora in mano e che non si era accorto di star stringendo con così tanta forza da sbiancargli le nocche.
« Ti spiacerebbe, Zingaro? » e Zlatan si muove semplicemente perché José gliel’ha chiesto, e non ha il tempo di odiarsi per come il suo corpo gli obbedisca senza nemmeno provare a ribellarsi, non ne ha perché le labbra di José sono troppo lontane, lo sono state per troppo tempo e chissà per quanto tempo ancora lo saranno da adesso, sarebbe stupido non approfittare degli ultimi giorni.
« Perché te ne vai per primo » mormora José sulla sua bocca, ed è troppo - è una di quelle cose che Zlatan non voleva dire né sentirsi dire - ma non è abbastanza, ma lo dice lo stesso, solo quello, con un sospiro e un dubbio che è più una sicurezza, perché è sicuro che Zlatan la Saudade nemmeno riuscirebbe a concepirla per astratto, figurarsi capirla, completamente assurdo che possa sentirla.



* * *



« E poi si diceva: “Vai, cammina più in fretta, corri lontano, la vita è piccola e troppo vasta è l'anima” » mormora José, svegliandolo.
Zlatan stava sognando un ricordo sbiadito, una conversazione fatta allo specchio, non sa quanto seria e quanto scherzosa: sa che erano avvolti dal vapore della doccia, che erano sporchi di schiuma da barba perché avevano cominciato a toccarsi spintonandosi e a baciarsi ridacchiando come due stupidi dodicenni innamorati per la prima volta, e che poi avevano fatto l'amore proprio lì, contro le piastrelle della parete del bagno, in sottofondo della musica di una canzone orrenda, piena di vocali, così dolce e così struggente, così malata di lontananze.
Zlatan sbatte gli occhi con una smorfia sul volto che è un sorriso solo a metà, infastidito dalla luce del primo pomeriggio che filtra dalle tende del salotto e che si deposita proprio sul suo viso ancora confuso tra il sonno e il sogno.
« Cosa hai detto? » chiede alla voce, incespicando un po’ prima di trovare la grammatica giusta per la lingua scelta. Allunga alla cieca una mano di fronte a sé, tentando di contrastare il sole che lo acceca e, nel movimento, si lascia sfuggire un lieve verso di dolore: si è addormentato sul divano in una posizione scomoda e innaturale; tutto il corpo gli pulsa dolorosamente anchilosato.
« Non ho detto niente. Leggevo » replica José da qualche parte vicino a lui.
Zlatan socchiude gli occhi disturbato dalla luce, e ad un tratto tre dita gli picchiettano la fronte, fastidiose ma gentili; i suoi muscoli riconoscono quel tocco e si rilassano immediatamente, mentre le dita diventano una mano che gli copre il fastidioso riflesso del sole. Se fosse stato più sveglio – vagamente più sveglio ma non troppo sveglio e cosciente –, avrebbe baciato quella mano, imprimendo forte le labbra sulla pelle morbida di José, riconoscente e segretamente commosso da quel gesto piccolo e allo stesso tempo significativo, dolce, intimo.
« Ah », risponde invece, la bocca impastata e la lingua sconnessa, incerta sulle parole da pronunciare.
« Sembrava un consiglio » dice. Poi aggrotta le sopracciglia e si fa pensieroso, e sul viso gli si forma un’espressione adorabile, che José vorrebbe stringersi contro senza aver paura di sembrare un ridicolo romantico e « o una critica », riflette.
« Era una critica? » sembra smarrito, persino impaurito. È raro che Zlatan si mostri così, davvero raro – non quanto lui vorrebbe, non con José, ma è pur sempre raro – che abbassi la guardia e che si mostri senza maschere, e José ride una risata senza traccia di derisione, una risata sincera e mite che poche volte Zlatan gli ha sentito.
Entra nel suo capo visivo per ghignare apertamente e cancellargli quella inutile preoccupazione dal volto depositandogli sulla guancia un bacio che assomiglia più ad un morso.
« Non lo era. Leggevo » dice con tono piatto e musicale, pieno del suo accento portoghese, mentre una mano prende a massaggiargli pigramente le spalle, in un movimento ripetitivo e rilassante.
Non c’è niente di sano in loro, niente di equilibrato, ma a José ogni tanto piace far finta di essere sano: gli piace fingere e poi smettere di fingere, perché il passo successivo è quello di riaccogliere in sé tutta la consapevolezza di quanto lui sia e di quanto Zlatan sia e di quanto loro due siano scombinati. È assurdo, e del resto lui è totalmente assurdo, ed è un balsamo per il suo narcisismo: gli dà la forza per continuare ad essere José Mourinho, e a volte è pure più difficile di essere Zlatan Ibrahimovic.
Del resto, Zlatan è puro caos: è irrequieto, potenzialmente distruttivo e autodistruttivo, è prepotente e arrogante, completamente matto, capriccioso, scorretto, è inesplicabile, senza controllo, è invadente e famelico, è ambizioso; Zlatan con la sua risata che è un ruggito, che è breve e roca, che è forte e vigorosa, che è vera.
Zlatan è un casino. Zlatan è perfetto. José gli accarezza il profilo del naso – quel naso ingombrante quanto la sua personalità – con una passione che potrebbe definire ridicola, se solo non gli incendiasse il petto con così tanta prepotenza.
« Davvero? E che leggevi? » Zlatan si fa bastare quella bugia. Non aspetta che José risponda alle sue domande, sprofonda nuovamente in un sonno pieno di vecchi ricordi caotici e disordinati – come loro, e del resto quei sogni sono fatti solo di loro, non potrebbero essere diversi –, e quando il suo respiro torna a farsi regolare, José si concede la libertà di chiudere il libro che stava leggendo e di tirarlo contro le valigie abbandonate nell’ingresso, pronte per essere imbarcate su un volo che nemmeno ricorda verso dove li porti.
« Puta Saudade » dice, e non ha mai odiato tanto che la sua lingua possedesse quella parola così bella e poetica, che quella categoria dello spirito fosse propria della sua gente, che lui la sentisse così tanto, che facesse così male.
Una volta, questa cosa della Saudade, ha persino provato a spiegarla a Mario: quel ragazzo è così simile a Zlatan – a volte pensa davvero che siano imparentati tra loro, perché di coglioni ne ha conosciuti tanti, ma mai gli è capitato di incontrare due persone coglione allo stesso identico modo – e José non vorrebbe che facesse gli stessi errori di Zlatan, perché se pure sono coglioni allo stesso identico modo, è troppo sperare che abbiano la stessa forza, e José non è così crudele da augurare a qualcun altro di essere completamente simile a Zlatan.
Comunque, non è così ingenuo da pensare che Mario l’abbia capito – o anche che l'abbia soltanto ascoltato – e adesso non può fargliene una colpa, perché lui la Saudade ce l’ha dentro dalla nascita e la capisce, e a volte la sente ancora prima di sentirla davvero, come adesso, ma non sa che farsene.
Zlatan mormora qualcosa nel sonno, qualcosa che non capisce e che è una strana miscela di spagnolo, svedese e italiano.
José gli accarezza i capelli.


* * *



« Cos’hai? » gli domanda, le labbra che intervallano ogni lettera con un bacio profondo, fatto di denti e passione, quei baci che annullano le distanze non fisiche, quei baci che gli spezzano il fiato e lo avvolgono lenti, riempiendo le pieghe di una fragilità che è ancora incapace di mostrare.
« Mancanza » risponde, strappandogli un sorriso storto, complice. Si capiscono, loro due: un tempo ha perfino creduto fossero identici, ma la realtà è molto più complicata e dalla difficile definizione – e non poteva certo essere diversamente, visto che si parla di José e Zlatan – o forse è semplice comprensione e vicinanza d’anime, che sembra essere una cosa talmente irreale e impossibile che magari è vera.
« È troppo bella e profonda per essere tua » replica mentre gli accarezza il profilo spigoloso della mandibola, le dita morbide che esplorano la sua pelle come se fosse la prima volta che se la ritrovano vicina; la scrutano con circospezione e poi vengono raggiunte dalla bocca, che gli bacia un angolo del viso, delicatamente « in quale libro l’hai letta? » lo provoca rialzando il volto per puntargli in faccia i suoi occhi profondi e instabili.
Brillano sempre, i suoi occhi; le prime volte che si è ritrovato ad osservarli – i primi giorni all’Inter, le prime settimane di Campionato, i primi mesi a fare l’amore nascosti negli spogliatoi o negli uffici della Pinetina, i primi anni passati a cercarsi da lontano, con troppa terra e poi un mare immenso e poi di nuovo troppa terra a dividerli e poi più niente e poi di nuovo tutto, e quanto tempo è passato, e sono ancora lì, davvero, loro due? – le prime volte che li guardava pensava tremassero. Ma ha imparato a dare un nome alle sue emozioni forse più che alle proprie, e sa che lui no, non traballa ma che, piuttosto, brucia di vita.
Lui si imbroncia e gli regala un debole calcio sugli stinchi, al quale risponde con uno bacio schioccante, volutamente rumoroso, sulla guancia lucida di sudore e rossore.
« Non in uno dei tuoi, visto che in quelli ci sono solo le figure » replica cercando di morderlo, e lui si scansa e ride e poi ghigna e si spinge contro con violenza, senza sapersi dosare, come al solito, ed è costretto a sgridarlo con un debole « Fa piano! » che sfuma in un gemito di piacere, per colpa del quale lui sorride e non crede alle sue proteste, per fortuna.

Lui si fa serio solo dopo l’orgasmo. Sta accarezza pigramente il suo addome che si alza e si abbassa sereno, fino a quando « Posso… » prova, spezzando la scena con la sua consueta irruenza, così si volta a guardarlo stupito, perché quella nota di consolazione è strana: entrambi sanno che non c’è niente da poter fare, che quella mancanza che gli mangia lo stomaco, come una fastidiosa, infinita gastrite, come un vuoto all’altezza del petto che non si riempie nemmeno con il bello che riconosce avere attorno, e che anzi, delle volte sembra risucchi anche quello, è una cosa soltanto sua, alla quale può porre rimedio solo lui, e non c’entra con loro, e lo sa, e lo sanno, perché quella fame corrosiva li divora entrambi, anche se con ritmi e tempi diversi.
È facile assecondare il proprio istinto al trasloco, con lui; se non fosse facile sarebbe comunque necessario, perché c’è quella fame da saziare, quel vuoto da riempire, quel dettaglio da capire e che non può aspettare, non sa tacere, non lo lascia mai.
“Quando te ne vai è davvero come se capissi per la prima volta l’uomo che sarai” gli ronza in testa; non ricorda dove abbia letto quella frase, non è nemmeno del tutto sicuro di averne capito il significato.
I suoi occhi sono fermi, adesso, in una strana composizione di amore e rassegnazione, e allora deve staccare lo sguardo, perché un dolore nuovo comincia a squarciarlo dentro, troppo forte.
« Puoi dirmi che ci sarai » concede, non perché debba farlo ma perché vuole, deve, cancellargli quell’espressione dal volto.
« Tu ci sarai? » gli domanda, e improvvisamente sembra un ragazzino spaventato; la sua voce contrasta con i suoi capelli grigi, che spettina solo per toccarlo, per sentire sotto le dita il suo calore. È certo di essersi perso pezzi importanti di una conversazione secondaria avvenuta tra di loro, ma « ci sono » dice, perché è vero.




Zlatan non ricorda mai come finisce quella conversazione. Quando sogna quel ricordo, le voci si mescolano, le loro parti si invertono, tutto cambia fino ad impedirgli di distinguere a chi tra di loro appartengano pensieri e azioni. Ma non la fine; quella non cambia, perché rimane sospesa, come se fossero intrappolati a giocare degli infiniti tempi supplementari.
Ma una fine, in effetti, a loro non serve.


* * *



« Perché li hai chiamati entrambi? » Zlatan, dritto contro il muro, volta appena la testa verso la porta, ad indicare Davide e Mario, che stanno aspettando fuori dall’ufficio di José, in corridoio.
Si domanda se anche a loro due, vedere la Pinetina così diversa, camminare in quelle stanze un tempo familiari e ora del tutto estrane, abbia fatto lo stesso spiazzante effetto che ha fatto a lui.
Quando l’ha confessato a Raiola tra le chiacchiere settimanali della loro consueta telefonata del giovedì sera, quando gli ha rivelato in un soffio timido che quasi gli tremavano le gambe ad aggirarsi tra quelle mura stravolte dal tempo, Mino ha riso di lui e l’ha additato come vecchio sentimentale che comincia a sciogliersi davanti ai ricordi. Raiola è sempre stato un buon amico, ma non l’ha mai capito; e del resto in pochi hanno capito la strana e confusa tonalità di grigio (o di grigi) che è Zlatan, anzi, forse non l’ha mai fatto nessuno tranne José e naturalmente se stesso – ma non trova sia una gran vittoria in entrambi i casi, visti i soggetti – e Zlatan non si sente di fargliene una colpa, perché è consapevole di funzionare male, o forse al contrario, o forse solo diversamente.
Tutti hanno sempre pensato che a Zlatan il tradimento venisse facile perché non si affezionava alle cose. E Zlatan, in effetti, non ha mai riposto il proprio affetto nelle cose, negli oggetti o nei luoghi: l’affetto lo ripone nelle immagini delle cose, nella proiezione di esse che si costruisce piano piano nella propria mente; le cose se le porta con sé ed è lì che le ama, al sicuro nella sua mente, senza l’impiccio della sedentarietà.
Il passato è piccolo quando il tempo passa veloce – e José gli ha sempre ripetuto che il tempo invecchia in fretta, e lui a volte finge di non curarsi di quello che dice José, e invece lo ascolta attentamente, lui e i suoi libri in portoghese – ma Zlatan se lo porta dietro, lo sa ricordare, e nei ricordi non importano le dimensioni delle cose.
Si porta con sé le cose importanti e quelle inutili – perché pensa siano proprio quelle inutili quelle che nel futuro diventano importanti – e sa farlo senza che i sentimenti diventino una zavorra che mina il suo impulso, il suo bisogno al cammino, la sua fame insaziabile di strada da percorrere.
I più l’hanno chiamato “propensione naturale al tradimento”, quel suo meccanismo naturale – o forse agli inizi impostogli dal caso e dalla vita (perché ha imparato presto che: “tutto quel che hai prima o poi lo perderai, Zlatan”) – ma a Zlatan non importa, dato che, di qualunque cosa si tratti, ha finito per rendergli le cose più semplici – o forse è stato Zlatan che le situazioni le ha sempre sapute rigirare a proprio favore, anche le più difficili e scomode, anche le più dolorose.
« Mi servivano » spiega José, senza spendersi in ulteriori dettagli. Sposta la sedia per avvicinarsi di più al computer dietro al quale sta scrivendo, per vederci meglio; si attacca così tanto allo schermo che Zlatan quasi si stupisce di non vederlo spuntare al di là.
« Qua? Tra tutti i posti dove potevi parlargli di lavoro… Tu hai scelto qua? » perché se lui può mentirsi ripetendo a se stesso che in fondo la Pinetina sia un posto come un altro per lui, uno dei tanti in cui è stato – e se dovesse fare un tour dei centri sportivi in cui si è allenato, il suo viaggio durerebbe così tanto da vivere un’altra vita da capo, un’altra vita di nuovo, e nemmeno gli dispiacerebbe – ma insomma, se può fingere che la Pinetina non sia particolarmente rilevante nella sua vita, è semplicemente ridicolo farlo per Mario e Davide.
« Non ti facevo così sadico » commenta, e José lo guarda scettico prima di indicarlo e indicarsi, e Zlatan si ritrova a ridere e annuire, ammettendo l’assurdità della propria affermazione.
« C’era una cosa che Mario doveva capire » butta lì José, come sempre, come dice sempre le cose importanti, come le persone normali direbbero le stronzate, anzi no, le ovvietà – ma loro non sono normali, non importa quanto a José piaccia far finta di essere sani – e Zlatan questa cosa l’ha sempre trovata fastidiosa, ma d’altra parte ha sempre trovato fastidioso l’intero sistema chiamato “José Mourinho” e questo non gli ha mai impedirlo di amarlo.
« Insomma, qua? » domanda quindi avvicinandosi alla scrivania e tastando il legno in cerca di qualcosa « José » dice poi quando finalmente trova l’astuccio nero, sottile ed elegante, « Non essere ridicolo » sillaba con aria truce, porgendogli la custodia degli occhiali da vista.
« Sottolineare la mia vecchiaia non mi renderà loquace, Zlatan » ringhia, ma si allontana dallo schermo e inforca gli occhiali mormorando parolacce in tutte le lingue che conosce – « ehi, quello era svedese, José? » – per poi tornare a premere tasti e a scrivere note.
« Qua » ripete José scimmiottando il suo tono di voce. « Appiano mi piace. È… » comincia, ma Zlatan lo anticipa, rotea gli occhi ed « … è Gentile, ah-ah-ah ».
« C’era una cosa che Mario doveva capire, e per farlo doveva essere qua, sì. Con Dade ».
« Mario? » ‘E io? Io l’ho capita questa cosa vostra?’ vorrebbe chiedergli Zlatan. Potrebbe farlo, magari con l’insolenza che adesso può quasi permettersi di usare, ma invece abbassa gli occhi e giocherella con la zip della propria tuta come se fossero di nuovo allenatore e giocatore.
« Tu non…» comincia José con sicurezza. Poi spalanca gli occhi e lo guarda come se lo vedesse davvero solo in quel momento. « Tu non avevi bisogno di capirlo » sospira con una voce che Zlatan non gli ha mai sentito, che fa quasi paura per quanto è sinceramente tranquilla.
« Noi portoghesi abbiamo una cosa, una cosa che è solo nostra » spiega José guadandolo da dietro gli occhiali neri. Zlatan non si è ancora del tutto abituato a quegli occhiali rettangolari dalla montatura un po’ retrò, ma non riesce a prenderlo in giro come vorrebbe, perché José è bello anche con addosso il peso degli anni che ha, quegli anni che hanno condiviso e affrontato insieme.
« La musica di merda? » lo sfida. José non si lascia provocare e storce la bocca in una smorfia annoiata.
« La Saudade, Zlatan. Ma in verità non è una cosa solo portoghese; noi la capiamo solo meglio ».
« Cosa c’è da capire nella malinconia? Nella nostalgia? Nell’assenza? Nella mancan… » si ferma e lo guarda stupito, perché quella particolare parola fa parte di un sogno confuso, che diventa improvvisamente chiaro nell’esatto momento in cui José ghigna con quel suo sguardo soddisfatto di lui. Zlatan gli si siede davanti, sprofondando con lentezza nella pelle imbottita della poltroncina.
« Oh ».
« La struggente nostalgia, la mancanza non ancora avvenuta, la malinconia indefinibile. Insegna ad apprezzare quello che hai e a ricordare quello che hai avuto, e tu lo sai quanto Mario abbia bisogno di imparare questa lezione ».
« Una volta hai detto che io e Mario siamo simili » riflette ad alta voce Zlatan, poggiando i piedi sulla sua scrivania.
« Zlatan » José alza il sopracciglio e lo guarda malissimo, facendo scorrere lo sguardo dalla sua faccia fintamente - ma neanche troppo - innocente alle sue scarpe sporche di fango. Apre la bocca come per dire qualcosa; poi ci ripensa, impreca e si sporge ad accarezzargli la caviglia. « Siete simili. Per sua sfortuna. Ma siete anche diversi ».
« Per mia fortuna ».
José scosta la mano e la agita nell’aria in un gesto distratto « Hai un aereo da perdere, Zlatan? »
Zlatan si volta verso il trolley abbandonato in un angolo della stanza e pensa di capire perché quelli strani portoghesi abbiano inventato la Saudade: gli addii arrivano con una potenza diversa, quando invecchi.
Ricorda una su partenza simile, tante sue partenze simili, un sé stesso simile, con un José simile, in un ufficio simile, in un Appiano simile, in una Pinetina simile, in una Pinetina che, per quanto finga sia uguale a tutti gli altri posti non lo è, non lo è affatto, è importante per loro quasi quanto lo è per Mario e Davide, o lui e José non continuerebbero insistentemente a parlarsi in italiano, non avrebbero continuato a farlo tutte le volte che in Italia finiva per non esserci più nessuno di loro due.
Avrebbero potuto combinare un gran casino, lui è José. Sarebbe bastato così poco: una frase sbagliata, una telefonata evitata, una resa stanca, l’ammissione sincera di non riuscire più a sopportare la Saudade di qualcosa che hai nel momento in cui la senti, ma che sai che nel futuro lo perderai.
Invece hanno fatto un profondo respiro, si sono morsi la lingua più e più volte, fino ad avvertire il sapore del sangue sciogliersi in bocca, hanno contato fino a dieci – o almeno c’hanno provato – e sono riusciti ad incastrare le proprie personalità così simili e così diverse, pesanti e imponenti e forse il casino è venuto fuori lo stesso – Zlatan ridacchia ripensandoci e José gli rifila un’occhiata perplessa, “ ' cazzo ridi, Zingaro, sei ammattito del tutto, prendi quel tuo fottuto aereo e sparisci per almeno un mese” – ma Zlatan è rimasto e anche José è rimasto ed è assurdo, perché sono rimasti pur andandosene via tante – non troppe, solo tante – volte.
Ed è perfetto.
Allunga le dita e gli accarezza le rughe vicino agli occhi: “Non ho mai amato nessuno come te”, pensa. Vorrebbe riuscire a dirglielo, ma il sorriso pieno di José gli suggerisce che, alla fine dei conti, sarebbe superfluo.


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